Intervista a Massimo Augusto Morosi – Orlando Calcio

Mi chiamo Massimo e sono un centrocampista della squadra Allievi Under 17 dell’Orlando Calcio. Mio babbo è italiano, mia mamma brasiliana ed anche la mia storia è ambientata in due luoghi diversi: l’infanzia a Goiania, una cittadina non lontana da Brasilia, e l’adolescenza a Livorno. La mia biografia a metà fra due continenti è frutto delle scelte di vita dei miei genitori, che in un primo momento pensarono di vivere e di lavorare nella terra di origine di mia mamma, mentre più o meno alla fine delle mie scuole elementari brasiliane decisero di spostarsi nella città dei 4 mori dove viviamo ancora oggi. I miei genitori non mi imbrogliarono al momento del trasloco: mi spiegarono fin dall’inizio che in Italia non avremmo fatto una vacanza ma ci saremmo trasferiti a Livorno per sempre. Per me non fu facile lasciare i miei amici e cambiare modo di vivere.

Anche se Livorno è di sicuro la città più spumeggiante e chiacchierona della Toscana, il confronto con il Brasile fu impietoso soprattutto nei miei primi mesi in Toscana: le persone sia nella nuova scuola che per strada mi sembravano più tristi, il clima più freddo e nei bar di Livorno non c’era la pamonha (una polenta fritta che si mangia dentro una pannocchia come cibo da strada) ma il cinque e cinque (per i non livornesi, il panino tondo con la torta di ceci). Per fortuna che ad aiutarmi nell’ambientamento ci ha pensato il mio gioco preferito, il calcio: da Goiania a Livorno ho cambiato squadra ma non ho perso nemmeno un mese di allenamenti e di partite. Il calcio giovanile a Livorno è molto diverso dalla scuola calcio del Botafogo dove giocavo negli anni delle elementari: a Livorno l’agonismo è molto più elevato, c’è più pressing e ci sono più falli, così il mio modo di giocare è cambiato. Da bambino ero un po’ più tecnico e raffinato, mi piaceva tanto cercare il dribbling; qui a Livorno invece mi sono trasformato in un mediano più di sostanza, che in primo luogo cerca di proteggere la difesa. Della mia infanzia in Brasile in compenso non ho perso la passione per tirare i calci di rigore. Sono uno dei pochi ragazzi della mia età che riesce a guardare il portiere fino all’ultimo, per vedere se si muove un attimo prima e spiazzarlo, tenendomi sempre pronta nello stesso tempo la soluzione di riserva nel caso il portiere resti fermo. Se sai guardare il portiere fino all’ultimo, di rigori se ne sbagliano pochi e neanche quelli decisivi ti fanno tremare le gambe. Io ne ricordo uno, di questi rigori pesanti, che andai a battere contro l’Atletico Portuale proprio all’ultimo minuto: anche lì, portiere spiazzato. E poi, oltre alla capacità di guardare il portiere prima di battere un rigore, del mio dna brasiliano qui a Livorno mi sono portato dietro la serenità come stile di vita e di gioco: nelle partite del nostro campionato, qui all’Orlando, spesso succede che i ragazzi si innervosiscano e inizino a dirsele di tutti i colori. Io per carattere cerco invece di non perdere la gioia di vivere e di giocare a calcio, anche dentro situazioni di forte nervosismo. Cerco anche, per quanto posso, di aiutare i miei compagni e gli avversari a non avvelenarsi e a chiudere le polemiche prima che l’arbitro sia costretto a tirare fuori i cartellini. Però ci riesco e ci provo solo fino a un certo punto, perché non tutte le litigate in campo sono pericolose.

Ai livornesi un po’ piace prendersi a male parole, e sotto sotto non c’è malizia, non c’è reale volontà di offendere. Questa cosa tutta livornese l’ho capita con il tempo e mi fa sorridere.
In questa quinta stagione con la maglia dell’Orlando, dove ogni anno ho la fortuna di vedere la mia squadra migliorare sia nel gioco che nel piazzamento in classifica, oltre al campionato abbiamo un obiettivo stagionale aggiuntivo. No, non è la Champions né la coppa Italia! E’ il progetto Figc “Non Solo Piedi Buoni”, che ci sta portando ogni venerdì pomeriggio alla casa famiglia di Quercianella per stare insieme alla decina di bambini che abitano lì e alle tante educatrici e animatrici che li seguono con affetto e attenzione. A me è sempre piaciuto giocare con i bambini, quindi la proposta del mister l’ho appoggiata fin da subito. Nel mio immaginario, una casa famiglia per bambini che vivono lontano dai loro genitori, la immaginavo come un luogo molto serio e triste. Invece è un posto dove i sorrisi non mancano mai. Mi ha colpito molto lo staff delle educatrici: organizzatissime, con tutti questi bimbi di diverse età, con diversi orari e diverse esigenze; chi beve il latte al biberon, chi mangia la pizza, chi fa il disegno dell’asilo e chi la lezione delle medie… Però vedo anche tante coccole e tenerezza. E poi mi ha colpito la vivacità dei bimbi, la loro voglia di giocare, di interagire, di conoscermi. E’ bello vederli con gli occhi così vivi, soprattutto se immagino le situazioni familiari difficilissime da cui questi bimbi provengono e da cui si sono dovuti allontanare. Noi ragazzi dell’Orlando per aiutare questi bimbi con la nostra presenza del venerdì, possiamo mettere un piccolo tassello: la nostra voglia di stare bene insieme a loro, e anche la nostra presenza maschile, che nella casa famiglia mi sembra preziosa, vedendo che tutte le educatrici e le animatrici dello staff sono donne. Allo stesso tempo penso che i bimbi della casa famiglia abbiano tanto da dare: io sono convinto che anche noi grandi dovremmo conservare qualcosa del nostro essere stati bambini; penso in particolare alla spontaneità, al vivere senza i filtri dei social, senza maschera, a presentarci agli altri così come siamo. In questi pomeriggi a Quercianella ci si ricorda che tanti problemi sul “che figura ci faccio” che ci bloccano nella vita di tutti i giorni, se si torna bambini anche solo per poche ore, scompaiono. Resta solo il bello dello stare insieme, che è l’unica cosa che conta davvero.

Intervista ad Emanuele Magliocca – A.C.D. Bibbiena

 

Mi chiamo Emanuele e sono l’ala sinistra della squadra under 16 del Bibbiena. Il Bibbiena è la squadra del mio paese: ci gioco volentieri non solo perché è il campo di calcio più vicino a casa mia, ma anche perché è la squadra di un paese dove sono davvero contento di abitare. A Bibbiena c’è tutto: la scuola superiore, il treno, lo sport, la compagnia di tanti amici, tante belle strade poco trafficate e immerse nella natura dove girellare con la moto… Sì, è vero, d’estate abbiamo il punto debole di essere fra le parti della Toscana che sono più lontane dal mare, ma alla fine mi sono affezionato anche a questo difetto. Già, perché noi ragazzi di Bibbiena d’estate il mare vicino a casa ce lo siamo inventato comunque; è la Pozza del Leone, un torrente che scorre a Corsalone, cinque minuti di motorino dal centro del paese. Alla Pozza ci sono dei massi dai quali ci si può tuffare, in diversi punti l’acqua è abbastanza profonda ed il bagno divertentissimo.

Divertente quasi quanto giocare nel Bibbiena, dove ho iniziato ad appena sei anni anche se, per buona parte del periodo delle elementari, sono stato costretto a cambiare sport. Colpa di un problema alle piante dei piedi che mi obbligava a portare dei plantari particolari e a non usare assolutamente le scarpe coi tacchetti. Ma appena il problema ai piedi si è risolto e il covid è finito, non ci ho pensato due volte a tornare a giocare a pallone! Gioco sulla fascia facendo su e giù di continuo, per aiutare la difesa ed essere presente anche nelle azioni d’attacco. Quando capita, cioè quando dall’altra parte del campo sento che sta per arrivare un cross di un mio compagno, cerco di farmi trovare pronto in mezzo all’area per prenderla di testa e fare gol. Il primo gol in una partita di campionato 11 contro 11 invece l’ho fatto di piede, tre anni fa sul campo del Pian di Scò: un tiro di prima intenzione passato in mezzo a tante gambe ed entrato in rete fregando il portiere che forse lo aveva visto partire troppo tardi. Non sono un ragazzo esuberante che dopo i gol fa esultanze strane, di quelle provate e riprovate per poi pubblicarle su Tik Tok: quella volta, però, dopo il mio primo gol nel calcio vero, feci un’eccezione; corsi a perdifiato fino alla tribuna e disegnai un cuore con le dita delle mani per lei, la mia sorellina Elena, che ora tanto “ina” non è più ma a cui voglio ancora un bene infinito. Sento dire tante storie di fratelli e sorelle che da adolescenti si bisticciano. Io e Elena invece più passano gli anni e più ci sentiamo complici: io da fratello maggiore cerco di dare l’esempio, mi sento responsabile quando usciamo da soli perché tocca a me accompagnarla a piedi da qualche parte in paese; e anche in quei giorni tristi di pioggia in cui non si può uscire di casa e non ci sono appuntamenti con gli amici, io e mia sorella stiamo sempre volentieri in compagnia in camera a vederci un film insieme o a giocare a carte fino a tarda sera.

Mi sento un ragazzo fortunato perché oltre ad avere una bella famiglia ho anche un bel gruppo di amici, e tanti di questi sono quelli del Bibbiena. Con alcuni di loro infatti ci gioco insieme da sempre. Un po’ di questo affiatamento di squadra è merito anche del progetto Figc “Non Solo Piedi Buoni”, che ogni giovedì porta alcuni di noi dell’under 16 del Bibbiena a conoscere un luogo del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi guidati da Andrea, il direttore del Parco. E’ toccato anche me, con un mio compagno di squadra. Andrea ci ha accompagnato in una casetta di montagna immersa nel bosco dalle parti di Camaldoli: lì il Parco ha attrezzato una foresteria per i volontari e i ricercatori che vengono a dare una mano al personale fisso dell’ente. Una decina di persone ci ha dato il benvenuto in un ambiente molto semplice: le camere coi letti a castello, più una cucina unica e volutamente condivisa dove tutti gli ospiti mangiano insieme per fare amicizia. A quella tavola, con questi amanti del parco e dei suoi animali strani, ci sono stato anche io.

A spiegarci e a mostrarci le cose più interessanti è stata Sole, una ricercatrice universitaria di Padova che è venuta in questo periodo ad abitare nella casetta nel bosco per studiare i lupi. Li segue grazie al gps attaccato al collare di uno di loro. E dopo il passaggio del lupo in un determinato punto lei con un suo collega ricercatore fa dei sopralluoghi a piedi in mezzo alla natura incontaminata per analizzare le tracce: resti di prede appena mangiate dal lupo, ma anche resti di escrementi da analizzare in laboratorio per risalire al dna e tanto altro materiale biologico. Inoltre nel parco ci sono diverse microtelecamere fisse che catturano le immagini di un sacco di animali in transito, tipo le telecamere di viaggiare informati; solo che dal computer di Sole invece di file di macchine si vedono passare cervi, cinghiali e lupi spettacolari. I volontari e i ricercatori ci hanno parlato dell’emozione mista ad un pizzico di paura quando questi animali bellissimi te li ritrovi davanti a distanza ravvicinata in mezzo ai boschi del parco, in un silenzio perfetto. Mi ha meravigliato scoprire che ci sono persone che da tante parti d’Italia vengono a fare una vacanza di volontariato o a lavorare qui per prendersi cura di questi boschi e per studiare gli animali da documentario che ci abitano. Io confesso che non sono un tipo da documentari sugli animali ma ora, un po’ di voglia di vedere più da vicino queste “autostrade naturali” nei boschi vicino a casa mia, mi è venuta. Speriamo di tornarci!

Intervista ad Alessandro Barsi – Folgore Segromigno Piano

Mi chiamo Alessandro e sono un centrocampista della squadra Allievi under 17 della Folgore Segromigno Piano, la società sportiva di un paesino sulla strada fra Lucca e Pescia, nel comune di Capannori. La mia passione per il calcio ha seguito un percorso strano: per i primi 4 anni, fra elementari e medie, sono stato portiere nella scuola calcio della Pieve San Paolo, la squadra di un sobborgo a sud di Lucca; avevo imparato a tuffarmi a caccia del pallone nel giardino di casa quando facevamo a passaggi e tiri in porta io, il babbo e mio fratello. Ho visto le dimensioni della porta crescere insieme a me: da quella del giardino di casa a quella del calcio a 5, poi quella del calcio a 7 fino a quella del calcio a 9. Poi però, proprio al momento di arrivare a giocare nel campo grande, alla fine delle scuole medie, scelsi di cambiare squadra e ruolo. Negli ultimi anni della mia vita da portiere mi capitò infatti di fare degli allenamenti e delle partite di prova come giocatore di movimento, e così piano iniziai ad assaporare il bello di correre con la palla al piede, di andare all’attacco, crossare, calciare in porta. Per tre anni ho fatto il terzino destro prima di cambiare squadra ed arrivare al Segromigno trasferendomi nel cuore del centrocampo.

Dopo tutti questi cambi di ruolo sono diventato una mezzala più di manovra che di inserimento, dotata di un buon passo e molto a proprio agio quando si tratta di alzare il pallone da terra per cambiare gioco o lanciare gli attaccanti in profondità. Porto anche la fascia da capitano, che gli allenatori dell’anno scorso e di quest’anno mi hanno affidato pensando probabilmente che fra i vari ragazzi della squadra sono uno di quelli più adatti a parlare con l’arbitro durante le partite. Del calcio mi piace tanto il fatto di giocare di squadra, di essere un gruppo. Mi piace la forza del gruppo nei momenti belli, come l’abbraccio dei compagni dopo il mio primo gol, 4 anni fa quando ancora giocavo nella Pieve San Paolo, ma anche nel momento della sconfitta. Ricordo la scorsa estate il nostro spogliatoio dopo aver perso la finale in un torneo a Lucca dove avevamo giocato benissimo: ricordo la delusione iniziale, ma anche le parole che ci dicemmo fra di noi per incoraggiarci a vicenda e per ricordare tutto il bello di quel torneo a parte il risultato della finale; ricordo che quella sera uscimmo dallo spogliatoio dispiaciuti ma anche orgogliosi e uniti.

In questa stagione la nostra squadra è partita molto bene ma poi si è un po’ disunita. Ora ci stiamo impegnando per ritrovare al più presto morale e risultati: dobbiamo crescere a livello di convinzione in noi stessi e di concentrazione, senza disunirci al primo episodio negativo di una partita. In questa stagione stiamo vivendo un’esperienza di squadra molto originale anche grazie al progetto Figc “Non solo piedi buoni” a cui io e i miei compagni stiamo partecipando. Fra i protagonisti del progetto ci sono anche io, insieme al mio compagno di squadra Mattia, per portare avanti la missione che la Federazione ci ha affidato invitandoci a fare amicizia con i ragazzi nostri coetanei di un centro di accoglienza di Capannori per immigrati minorenni appena arrivati in Italia. Il nostro mister Luca ci ha accompagnato nell’appartamento dove ci aspettavano Moussa, Mamadou, Ahmad, Sebou e Mario. Abbiamo fatto merenda insieme, e poi, aiutati dagli educatori del centro di accoglienza Leonardo e Mara, abbiamo ascoltato le storie di Mamadou e Ahmad, e in particolare i racconti dei loro viaggi per arrivare in Italia partendo dal proprio paese di origine. Mamadou è passato dalla Guinea al Senegal al Mali all’Algeria e alla Tunisia, attraversando il deserto su un camion e poi a piedi; infine ha attraversato il Mediterraneo su un barchino messo a disposizione dai trafficanti di persone a cui si era affidato. Ahmad invece dal Marocco in aereo si è trasferito in Turchia, e da lì interamente a piedi ha viaggiato per 7 mesi attraversando i vari paesi dei Balcani fino ad arrivare in Italia. In queste storie mi ha colpito tanto il coraggio e la determinazione che questi ragazzi della mia età hanno avuto per inseguire il sogno di una vita migliore e per sfidare i divieti di viaggiare e di attraversare un confine. Mi ha colpito sapere che qui a Capannori a due passi da casa mia ci sono ragazzi che in questi viaggi lunghissimi hanno sofferto la fame, la sete, il dolore lancinante alle piante dei piedi dopo centinaia di chilometri di cammino, e poi il caldo, il freddo, le notti in mare aperto o nel deserto, le manganellate e i respingimenti di poliziotti stranieri. In confronto agli ostacoli ed ai problemi da loro affrontati, le mie preoccupazioni e i miei problemi mi sono sembrati improvvisamente ridicoli e piccolissimi. Mi ha colpito anche il fatto che prima di oggi, pur vedendo questo appartamento e questi ragazzi da lontano girando per Capannori, io e i miei amici non avessimo mai trovato il modo di fare amicizia con Mamadou, Ahmad e gli altri, e avvicinarci alle loro storie, al loro presente fatto di scuole medie serali e di corsi professionali per trovare un lavoro con cui diventare autonomi quando il periodo di prima accoglienza finirà. Ora che la Figc ci ha creato questo collegamento è diventato tutto facile e spontaneo. Uno dei ragazzi del centro di accoglienza, Mohamed, ha già iniziato ad allenarsi con noi a Segromigno. Ma anche con gli altri ragazzi ci stiamo conoscendo in questi incontri al centro di accoglienza: speriamo questo progetto ci serva per imparare gli uni dagli altri, per diventare amici, per aiutare questi ragazzi arrivati da poco nel nostro paese a trovare un futuro qui a Capannori, e per formare tutti insieme (come ha scritto il mio compagno Mattia in un bigliettino alla fine dell’incontro di oggi) una nuova famiglia.

Intervista a Aurelio Frosini – A.C. Capostrada Belvedere

Mi chiamo Aurelio e sono un difensore centrale nelle giovanili del Capostrada Belvedere. La mia carriera da calciatore è stata un cambio di ruoli continuo. Ho iniziato a giocare a pallone abbastanza tardi, a 10 anni, dopo aver fatto nuoto negli anni delle elementari. Poi mi lasciai convincere dal mio migliore amico che giocava dell’Avanguardia, una scuola calcio di Pistoia, e decisi di seguirlo passando dalla piscina al campo.

Trovandomi in un gruppo di bambini con già qualche anno di esperienza calcistica, il mio primo mister decise di mettermi all’attacco, il ruolo dove chi è più scarso combina meno danni. Poi cambiai squadra, passai al Pistoia Nord, e il mio allenatore in quella squadra, il grande mister Egidio che ora ci guarda dal cielo, ebbe fiducia in me e mi reinventò interno di centrocampo. Fu lui a trasmettermi la mentalità da calciatore serio oltre che la passione nel giocare la palla e cucire il gioco. Poi mi sono trasferito al Capostrada, dove gioco ancora oggi, e dove essendoci un’emergenza in difesa mi è stato chiesto di arretrare ancora di più, iniziando una nuova vita calcistica come difensore.

L’emozione più bella della mia vita di calciatore è stata la prima partita ufficiale alla fine della pandemia, tre anni fa: dopo un anno e più senza calcio non ci sembrava vero di tornare a giocare, ed eravamo tutti contenti matti; io, i miei compagni, gli avversari, l’arbitro. Non ricordo nemmeno quanto finì quella partita. Mi ricordo solo che fu una festa. Ogni partita per me nel suo piccolo è un evento. Lo sport allena il mio carattere: è una continua sfida con me stesso, per migliorarmi sempre di più e per crescere insieme alla mia squadra, anche se nella nostra categoria si gioca solo per divertimento e non per lavoro. Con i miei compagni del Capostrada facciamo un campionato regionale e al momento navighiamo a metà classifica: la mia impressione è che la nostra squadra sia più forte rispetto alla classifica che ha ora, solo che finora ci è mancata proprio la consapevolezza di essere forti. In diverse partite invece di osare qualcosa in più e prenderci qualche rischio, ci siamo adagiati e abbiamo rinunciato a giocare. Io comunque sono fiducioso che nelle prossime partite riusciremo a fare meglio. Nel frattempo un salto di qualità a livello di convinzione in noi stessi lo abbiamo iniziato a fare grazie al progetto Figc “Non solo piedi buoni”, che  con due miei compagni di squadra mi ha portato a visitare il carcere di Pistoia passando due ore con una decina di detenuti. Nella prima ora abbiamo giocato a pallone in uno dei campi di calcetto più particolari della mia città: una striscia sottilissima e molto consumata di moquette verde come terreno di gioco, e poi le sbarre delle celle al posto della tribuna, e le due porte non di metallo ma semplicemente disegnate sui muri, con i pali e la traversa ridotti a tre strisce bianche di vernice. E’ stato emozionante mescolarci a questi ragazzi di diverse età e giocare con loro, scambiando due chiacchiere anche con le diverse decine di detenuti presenti a bordo campo per assistere alla partita e applaudire le nostre giocate più belle. Non mi aspettavo una sfida così intensa: ci siamo stancati quasi come in un allenamento del Capostrada! E’ stato bello soprattutto sapere che questa finestra di sport per i nostri nuovi amici detenuti è stata possibile grazie alla nostra presenza, perché normalmente (ci hanno spiegato i ragazzi) nel pomeriggio il carcere per motivi organizzativi non prevede attività sportive. E’ stata bella anche l’ora successiva, che abbiamo trascorso in una sala comune seduti in cerchio per presentarci e fare un po’ di conversazione. Sono venute a salutarci la direttrice della casa circondariale e la responsabile dell’area educativa che ci hanno promesso di venire a fare il tifo per noi in una delle prossime partite del Capostrada, cercando di fare ottenere un permesso premio ad alcuni dei detenuti nostri compagni di partitelle per avere anche qualcuno di loro a bordo campo.

Non avevamo orologio né telefono, ma il tempo è volato. I ragazzi detenuti, da veri appassionati di calcio, volevano sapere tanti particolari sui nostri allenamenti e sulla nostra squadra, ma anche quale scuola frequentiamo e di quale parte di Pistoia siamo. E poi a loro volta ci hanno dato qualche flash sulla propria vita dietro le sbarre: la solidarietà che c’è fra tanti di loro, la sofferenza per la lontananza dai loro cari e per la sensazione di restare sempre più indietro rispetto al mondo fuori che mentre loro scontano la pena continua ad andare avanti ed a cambiare.

Al momento di salutarci ci siamo scambiati complimenti e pacche sulle spalle con grande naturalezza. Io e i miei compagni di squadra ci siamo sentiti accolti. Speriamo di trascorrere tanti altri mercoledì pomeriggio con questi ragazzi in carcere, da qui a maggio. La Federazione e la direzione del carcere ci hanno fatto un bel regalo collegando la nostra squadra con la casa circondariale. Per noi sarà una bella occasione di imparare tante cose dalle storie di vita dei detenuti: dai loro errori ma anche dalla loro voglia di cambiare capendo in modo diretto come funziona il mondo della giustizia penale. E soprattutto cercando di essere utili a questi ragazzi che oggi abbiamo iniziato a conoscere. Una società di calcio è come una grande famiglia, con tante squadre, tanti atleti, tanti adulti che fanno volontariato. Io e i miei compagni del Capostrada abbiamo un luogo bello dove invitare questi ragazzi al momento in cui torneranno in libertà e avranno bisogno di trovare degli amici veri fuori dal carcere: nella nostra società sportiva si buttano giù i pregiudizi e c’è posto per tutti. Il futuro di queste persone conosciute oggi in carcere dipende anche da noi.

Intervista a Lorenzo Blotto – Paperino San Giorgio

Mi chiamo Lorenzo, ho 17 anni e sono sia un pugile che un centrocampista del Paperino. La passione per il calcio l’ho ereditata da mio nonno, che era un collaboratore della dirigenza della Juventus nei primi anni 70, e dal mio babbo, tifosissimo del Prato e presente in curva insieme a me allo stadio Lungobisenzio quasi ogni domenica. Quella per il pugilato invece, me l’ha trasmessa il mio babbo, che non boxava da giovane però è stato sempre uno spettatore assiduo degli incontri sul ring trasmessi in tv. Ho praticato i due sport contemporaneamente fin da bambino e diverse volte mi è capitato di fare due allenamenti nello stesso pomeriggio: prima in palestra a fare pugilato, poi al campo sportivo a giocare a calcio.

Il pallone non l’ho mai abbandonato: ho cambiato tre squadre (Zenith, Grignano e ora Paperino) senza fermarmi nemmeno per una stagione, covid a parte. Il pugilato invece è stata una passione un po’ più altalenante. Avevo iniziato ad allenarmi in palestra a 10 anni e mi divertivo tanto. A rallentarmi, nel mio amore per il pugilato, non sono state tanto le botte prese (quelle sono ordinaria amministrazione) quanto l’impossibilità di partecipare a incontri ufficiali fino all’età di 16 anni. Non ho avuto la pazienza di aspettare e di continuare ad allenarmi, vedendo l’obiettivo del ring e dell’incontro vero troppo lontano nel tempo. In realtà, ora che i 16 anni li ho finalmente compiuti, ho scelto di riavvicinarmi alla palestra, al saccone, al paradenti, al caschetto, ai guantoni, ai salti con la corda e agli allenamenti con i compagni e le compagne di pugilato. Il calcio e la boxe sono due sport non paragonabili fra loro però dentro di me sono legati, perché li sento tutti e due importanti per il mio equilibrio e la mia serenità. Quando non facevo pugilato, in campo sentivo di essere un po’ troppo esuberante, troppo falloso e a volte rissoso, pur senza mai combinare niente di grave. Ora invece sento che attraverso il pugilato posso canalizzare i miei momenti di rabbia ed esuberanza in modo sano. E poi il pugilato aiuta tanto, anche se visto da fuori vi sembrerà strano, a mettere davanti a tutto il rispetto per l’avversario. Al termine degli incontri i pugili si abbracciano, perché durante il match non si sono colpiti per farsi male ma solo per fare punto seguendo regole precise. Mi sono reso conto, ultimamente, che da quando ho ripreso ad allenarmi come pugile mi viene più facile durante i 90 minuti dare la mano a un avversario rimasto a terra o congratularmi con lui a fine partita.

La mia squadra del Paperino quest’anno sta facendo tantissima fatica in campionato: le abbiamo perse tutte, e quasi tutte di goleada. Sarà una bella sfida rimanere uniti nonostante questi risultati avversi: puntare a migliorarci pur senza fare i punti che vorremmo, continuare a divertirci durante la settimana negli allenamenti e cercare tutti i lati positivi di questa annata al di là dei risultati e della classifica. Uno dei lati positivi extracampo, a proposito, è che stiamo facendo dei bei risultati nel progetto educativo della Figc “Non solo piedi buoni” a cui il Paperino sta partecipando con la nostra squadra giovanile. La Federazione ci ha proposto di dare vita a una scuola calcio gratuita per i bambini del quartiere San Paolo, in una delle zone di Prato a più alta concentrazione di immigrati di origine cinese. Ogni lunedì pomeriggio tre di noi si fanno trovare al campino della parrocchia di via Donizetti per accogliere una decina di bambini delle scuole elementari e giocare a calcio insieme a loro, mentre Marzia, una maestra in pensione della parrocchia, è a loro disposizione per aiutarli con i compiti di scuola. Oggi a giocare con i bimbi del doposcuola ci sono andato io, insieme al mio compagno di squadra Mattia. E’ stato bello perché c’erano sì i bambini cinesi, ma c’erano anche bambini italiani a giocare con loro e con noi. Io avevo già avuto una esperienza di animatore di bambini qualche mese fa nel centro estivo del mio quartiere, Grignano. Quindi un po’ sapevo come muovermi. Io e il mio compagno di squadra Mattia non ci siamo limitati a dire ai bambini cosa fare, ma abbiamo giocato a calcio con loro anche nella partitella in cui ci siamo divertiti con una bella sudata collettiva. E’ proprio bello vedere questi bimbi cinesi che giocano a calcio insieme a noi e agli altri bimbi. Io che sono di Prato lo so bene che si tratta di una rarità assoluta. Mai avuto un compagno di squadra cinese, e solo una volta in centinaia di partite ne ho trovato uno fra gli avversari. Questo perché in pochi fra dirigenti e allenatori si prendono la briga di invitare i loro genitori andandoli a cercare, come invece abbiamo provato a fare noi ai cancelli delle scuole elementari. Uno di questi bimbi cinesi, Matteo, sabato è venuto perfino a fare il tifo per noi alla partita del Paperino. La nostra speranza è che questi pochi bambini che ci stiamo coccolando nei lunedì pomeriggio del doposcuola in parrocchia non perdano la passione per il calcio e che il prossimo anno alcuni di loro facciano domanda per iscriversi nei pulcini del Paperino. Ho incrociato tanti compagni di scuola cinesi fra le elementari e le superiori, e alle superiori quasi tutti loro si sono ritirati, chiusi nel loro mondo e troppo indietro con l’italiano pur essendo nati qui. Questa nostra scuola calcio è un modo per avvicinare questi bimbi cinesi ai bimbi italiani provando ad arrivare dove la scuola non arriva: per aiutare i bimbi a praticare sempre di più la nostra lingua e il nostro sport più popolare, e diventare sempre più italiani senza smettere di essere cinesi.

Intervista a Francesca Tigrano – Bellaria Cappuccini

Mi chiamo Francesca e sono l’esterno di centrocampo della squadra Under 17 della Bellaria. La mia passione per il calcio è nata nel giardino di casa grazie al mio fratello maggiore che, quando eravamo bambini, mi ha insegnato per centinaia di pomeriggi a calciare, stoppare e passare il pallone in tutti i modi.

Il calcio era il mio passatempo preferito, fin da piccolina: non solo in giardino ma anche davanti alla tv, con l’Inter diventata la mia squadra del cuore. Così al momento di scegliere uno sport da praticare anche a livello agonistico, ai tempi delle elementari, per me fu naturale chiedere ai miei genitori di iscrivermi a una squadra di calcio. A differenza di altre bambine che ancora oggi devono combattere contro la resistenza dei genitori e contro il pregiudizio del “calcio sport da maschi”, io sono stata fortunata a nascere in una famiglia immersa nel pallone. La mia mamma quando andavo alle elementari gestiva il bar del campo delle Melorie dove si allevavano le giovanili del Ponsacco Academy (società presieduta dal compagno di mia mamma) e così sono stati loro, insieme a mio padre, a spianarmi la strada e indirizzarmi sulla squadra di calcio dei bambini della mia età. Quando cominciai ero l’unica femmina in una squadra interamente composta da maschi; inserirmi nel gruppo per me è stato facilissimo, al di là della mia diversità. Ricordo l’emozione del primo gol ufficiale, in una partita sette contro sette: una bella conclusione al volo su azione di calcio d’angolo. Ottimo anche il rapporto con i vari mister del Ponsacco che ho avuto. Le uniche piccole difficoltà sono state a livello logistico, cioè la necessità di avere uno spogliatoio solo per me: di solito mi sistemavano nello spogliatoio dell’arbitro, ma nelle partite in trasferta ne ho visti di tutti i colori, di cosiddetti spogliatoi; a volte mi piazzavano in dei veri e propri sgabuzzini e mi toccava fare la doccia a casa un’ora dopo la fine della partita. Ma queste scomodità sono cose superabilissime e per certi versi anche divertenti.

Per niente divertenti, invece, sono state le frasi velenose e sessiste che a volte qualche genitore della squadra avversaria mi rivolgeva urlando cose del tipo “oh bimba, ma torna a giocare con le bambole, vai!”. Insomma, voi non ci crederete, ma io a giocare in una squadra maschile mi trovavo così bene che quando, a 12 anni, fui costretta a passare al calcio femminile per me fu un trauma. Ero sfiduciata di dover cambiare ambiente, eravamo anche nel periodo della pandemia, così ci fu uno stop obbligato dell’attività sportiva e io pensavo di non riprendere più. Poi però fu il mio babbo a incoraggiarmi a ricominciare. Mi fece presente che il Pontedera aveva una squadra under 15, andai a fare una prova sia lì che alla Bellaria, dove con i colori verde e blu è stato amore a prima vista. Quest’anno sono la più piccola del gruppo, avendo 15 anni non ancora compiuti. Fra l’altro questo è un anno pieno di novità perché sarà il mio primo campionato di calcio vero in partite 11 contro 11! E, come se non bastasse, questa stagione è piena di novità anche grazie al progetto Figc “Non solo piedi buoni” a cui la mia squadra sta partecipando, andando a trovare a piccoli gruppi ogni martedì pomeriggio i ragazzi nostri coetanei di una comunità per minori che si sono trovati a vivere lontano dai loro genitori.

Oggi toccava a me e ad altre due mie compagne di squadra: abbiamo passato due ore piacevoli, noi calciatrici e i ragazzi della comunità, preparando degli addobbi per Halloween e sfogando la nostra vena artistica divertendoci tutti insieme. E’ chiaro che due ore non bastano per diventare amici però sono convinta che la presenza della nostra squadra ogni settimana in questo luogo di accoglienza abbia un significato forte, sia per noi che per i ragazzi che ci abitano. Per noi bimbe della Bellaria toccare con mano la vita quotidiana di una comunità per minori ci aiuta a capire cosa conta davvero, e a ridimensionare certe nostre bizze e certe nostre paranoie da adolescenti che a volte ci facciamo senza pensare che i problemi veri sono altri, per esempio quelli che questi ragazzi stanno affrontando insieme agli educatori, cercando con tanta forza di volontà di costruire il proprio futuro nonostante l’impossibilità di vivere vicino ai loro genitori. Per noi bimbe è anche bello vedere una comunità per minori con i nostri occhi e con il nostro cuore e non solo per sentito dire: da cittadina sono orgogliosa che l’Italia con i soldi pubblici mantenga belli vivi dei posti come questo, dove i ragazzi con genitori in difficoltà vengono amati e accompagnati da una famiglia speciale fatta di educatori, di compagni di comunità e di volontari come noi. Penso anche, dall’altra parte, che questa nostra presenza possa essere utile anche per i ragazzi e le ragazze della comunità: immedesimandomi in loro penso che sia forte la tentazione di considerarsi “sbagliati” o troppo diversi dagli altri ragazzi solo perché non puoi abitare a casa con i tuoi genitori. Il nostro stare insieme a loro con semplicità invece è un piccolo modo di dimostrare ai ragazzi l’esatto contrario: via tutte le etichette! Siete e siamo ragazzi, tutto qua.

Intervista a Stefano Giarratana – Paperino San Giorgio

Mi chiamo Stefano e sono l’esterno offensivo della squadra Juniores del Paperino San Giorgio. Ho cominciato a giocare a calcio da bambino, girando diverse squadre di Prato. Nella vita è bello avere qualche punto fermo che continua ad accompagnarti nelle diverse età mentre tutte le altre componenti cambiano insieme a te che cresci. Il calcio è stato e continua a essere il mio punto fermo. In ogni età la mia passione per il pallone non è mai svanita, anche se ha cambiato continuamente pelle: da bambino la mia gioia erano le partitelle cinque contro cinque con zero tattica e valanghe di gol. Da più grandicello ho cominciato ad apprezzare il gesto tecnico: ricordo una tripletta che misi a segno quando facevo le medie in una partita 9 contro 9 in un torneo a Sesto Fiorentino contro il Forte dei Marmi. Essendo un attaccante conosco abbastanza bene l’emozione del gol. C’è chi raggiunge il massimo dell’emozione al momento dell’esultanza e dell’abbraccio dei compagni, subito dopo aver segnato. Io invece raggiungo l’apice della felicità nel momento stesso in cui vedo la rete gonfiarsi. Al momento del tiro mi sento solo: io, la palla, la porta, il portiere avversario. Sono frazioni di secondo, ma in quegli attimi e durante quel gesto faccio in tempo a percepire il silenzio perfetto intorno a me, e la concentrazione è indescrivibile. E poi arriviamo agli anni più recenti dell’adolescenza. Le prime partite a 11 nel Coiano, e la mia passione per il calcio che si arricchisce mettendo dentro il bello della tattica e dell’organizzazione di squadra. Del mio repertorio di ala il fondamentale che mi riesce meglio è il cambio di gioco: vi sembrerò un matto, ma io tocco il cielo con un dito ogni volta che la palla attraversa il campo e plana sui piedi del mio compagno dalla parte opposta. O perlomeno, vicino ai suoi piedi. La cosa invece che mi rattrista di più quando gioco è la frase del mister “Stefano, gioca semplice!”. Io che vivo sognando un dribbling, quando mi sento dire “gioca semplice” penso alla morte della creatività e del divertimento. Si vede che se gli allenatori me lo dicono così spesso vuol dire che tanta fiducia non gliela ispiro, mi sa… Scherzo!
Sono arrivato al Paperino da quest’anno, seguendo il consiglio di un paio di amici. L’ho sempre conosciuta da avversario come una squadra seria, ben organizzata, una realtà di livello nel panorama calcistico pratese. In questo campionato siamo partiti male un po’ perché siamo una squadra molto rinnovata, e un po’ perché nelle prime due partite abbiamo incontrato due squadroni. Però il nostro è un bel gruppo. E poi a me non dispiace nemmeno il campo della parrocchia di Castelnuovo dove la nostra squadra è costretta a giocare e ad allenarsi in attesa della costruzione del campo nuovo del Paperino. Mi piacciono i campi di calcio in aperta campagna. E poi ci si allenano e ci giocano solo due squadre, noi e la prima squadra. Insomma, io al nostro campo di scorta mi ci sono già affezionato, e spero di segnarci presto il mio primo gol con la maglia del Paperino.
Sono contento di vestire la maglia giallo-azzurra anche perché la nostra società non ha eguali a Prato nell’organizzare progetti belli per le sue squadre anche fuori dal campo di gioco. Oggi per esempio io e due miei compagni di squadra siamo andati alla parrocchia di Gesù Divin Lavoratore per il primo pomeriggio del progetto della Figc “Non solo piedi buoni” nel quale il Paperino rappresenta la provincia di Prato. Abbiamo messo su dal nulla un doposcuola per i bimbi del quartiere di via Pistoiese, la zona della nostra città con maggiore concentrazione di abitanti di origine cinese. Siamo andati ai cancelli della scuola del quartiere a prendere i bimbi che si erano iscritti alla nostra scuola calcio in parrocchia. Altri bambini li abbiamo trovati direttamente al campetto di calcio della chiesa che ci aspettavano. All’inizio mi sentivo un po’ titubante perché non sapevo se i bimbi e noi ci saremmo divertiti. Non ci conoscevamo per niente, c’era un po’ d’imbarazzo, e poi finora non avevo mai fatto un’attività di intrattenimento per i bimbi.

E’ stato bello vedere che il ghiaccio si è rotto quasi subito e che i 7 bimbi di tante provenienze venuti a giocare con noi siano stati bene. Un paio di mamme cinesi sono venute con i loro figli a vederci all’opera e a vedere gli spazi della parrocchia, e ci hanno promesso che la prossima settimana ci affideranno i loro bimbi. Insomma pare che gli abbiamo fatto una buona impressione! I bimbi alla fine dell’incontro erano contenti, e io lo ero in modo particolare, anche perché nell’ultimo quarto d’ora del doposcuola abbiamo letto la mia storia che avevo preparato apposta per i bambini. Ho raccontato ai bimbi della mia infanzia trascorsa nella loro stessa scuola (la Borgonuovo) e gli ho parlato dei miei giochi preferiti, di alcune maestre che anche loro conoscevano, e di alcuni episodi buffi per farli sorridere. Questa scusa di preparare una storia da leggere insieme prima di salutarci è stata l’occasione di un bel tuffo nel mio passato, e mentre leggevamo tutti in cerchio questi miei aneddoti mi sono emozionato. Speriamo di continuare con lo stesso entusiasmo, in questo doposcuola gratuito del lunedì pomeriggio. E’ bello mettere come squadra un piccolo tassellino per il benessere di questi bimbi dalle tante origini diverse (asiatiche, africane, europee). Sono loro la Prato di domani. E noi siamo qui per dimostrargli che il domani di Prato ci sta a cuore.

Intervista a Diego Sannino – G.S. San Miniato A.S.D.

Mi chiamo Diego e sono un difensore centrale della squadra Juniores del San Miniato di Siena. Sono nato a Siena ma poi dagli anni delle elementari fino all’inizio delle superiori ho vissuto con la mia famiglia a Ercolano, in provincia di Napoli, essendo mio padre originario di quella terra. L’infanzia in Campania mi ha regalato tante cose, a cominciare dal tifo per il Napoli e dalla passione per il calcio giocato dappertutto. Nei campi sportivi, certo, ma anche per strada. Mi ricordo partite interminabili nella viuzza sotto casa nostra, con i miei 8 cugini che abitavano tutti nelle case vicine alla mia: a Ercolano le famiglie erano allargate; a vedermi giocare al campetto non venivano solo babbo e mamma, ma anche zii, cugini e parenti alla lontana. Una volta all’età di 9 anni feci un gol da centrocampo in una partita di calcio a 7 e il mister e tutta la mia famiglia mi portarono in trionfo. Mi ricordo che quando giocavamo in strada e passava una macchina noi ci fermavamo tipo cooling break, dopodiché ricominciava la partita. Il gioco libero che qui a Siena praticamente è sparito, nel paese di mio padre esiste ancora ed è una cosa bella. Sì, giocando a pallone sull’asfalto ci si sbucciava le ginocchia di continuo però si imparava a giocare nello stretto, a pensare velocemente, a dribblare e (nel mio caso) a marcare “sentendo” l’avversario. E soprattutto ci divertivamo un sacco, passando molto meno tempo sui tablet e sugli smartphone. A Ercolano, ovviamente, ho giocato anche tante partite ufficiali nella squadra giovanile del paese, chiamata Ercolanese, disputando anche campionati di livello regionale. Poi io, mia madre, le mie due sorelle e mio fratello ci siamo trasferiti nuovamente a Siena, la città di mia mamma. E così nelle ultime due stagioni, su suggerimento di un amico, mi sono tesserato per il San Miniato. Qui in Toscana rispetto al calcio giovanile campano c’è molta più organizzazione: il pullmino che ci porta in trasferta, l’attrezzatura, gli allenatori mediamente più preparati, la tattica spiegata nei minimi dettagli… Tutte cose belle che a Ercolano me le sognavo. A Napoli in compenso c’era molto più agonismo in campo, e anche più tecnica individuale figlia delle tante partitelle in strada di cui parlavo prima. Quest’anno, il mio primo campionato con la Juniores, è cominciato non benissimo sotto il profilo dei risultati, con una vittoria e tre sconfitte, però è cominciato bene dal punto di vista dell’unione del gruppo. Ci aiutiamo molto fra di noi in campo e ci divertiamo anche fuori dal campo, soprattutto nelle cene in contrada, che i miei compagni di squadra senesi doc mi stanno facendo conoscere introducendomi in questo clima da osteria toscana (legato al palio) molto popolare e molto accogliente, capace di rendere questa città così magica.
Questo è un anno speciale per noi Juniores del San Miniato anche perché proprio oggi abbiamo cominciato il gemellaggio del progetto Figc “Non Solo Piedi Buoni”: la nostra squadra è stata abbinata a una squadra di calcio speciale di Siena, chiamata Le Bollicine composta da ragazzi disabili cognitivi. Questi ragazzi si allenano ogni venerdì pomeriggio sul campo di Rosia, a 10 km dalla città e noi del San Miniato ci uniamo a loro in alcuni di questi allenamenti delle Bollicine, raggiungendoli a Rosia e giocando con loro. Io e due miei compagni di squadra abbiamo fatto oggi una delle partitelle più divertenti dell’anno. Questi ragazzi hanno il grande dono della spontaneità: non hanno filtri, ti prendono in giro e scherzano con te anche se ci siamo conosciuti solo 5 minuti fa; è stato bello fare un po’ di assist per mandare in gol qualcuno di loro, e vedere la loro felicità che era anche la nostra. Io so bene quanto sia importante non lasciare soli questi ragazzi disabili e soprattutto non lasciare soli i loro familiari. Lo so bene perché mio fratello più piccolo convive dalla nascita con una disabilità gravissima, che non lo rende capace né di camminare, né di parlare né di vedere. So bene l’impegno eroico che i genitori di questi ragazzi ci mettono per aiutare i loro figli speciali ad avere una vita dignitosa. Lo so bene perché ho visto e continuo a vedere l’impegno e l’amore immenso di mia mamma per mio fratello. Il rischio, come dicevo, è quello di rimanere soli, e anche di isolarci da soli, noi famiglie con all’interno una persona disabile. Mi ricordo che fino a pochi anni fa ero in forte imbarazzo quando venivano a casa mia dei miei amici e mio fratellino era in casa. Avevo paura di mettere i miei amici a disagio. In realtà con il tempo ho capito che invitando i miei amici a tavola con me e con mio fratello faccio una cosa bella anche per i miei amici, insegnandogli nel mio piccolo a non avere paura delle diversità, a prendersene cura. Per questo motivo e per questa mia storia familiare ho deciso di partecipare per primo al gemellaggio fra la mia squadra e i ragazzi delle Bollicine. Il nostro è un piccolo segno, ma con un grande significato. Ogni volta che scenderemo in campo a Rosia con questi ragazzi e giocheremo con loro divertendoci insieme senza barriere, i genitori e i familiari di questi ragazzi si sentiranno un po’ meno soli. E magari inizieranno a fare il tifo per il San Miniato, come noi lo faremo per Le Bollicine.

Intervista a Alessio Pellegrini – USD Folgore Segromigno Piano

Mi chiamo Alessio e sono il centravanti della squadra Allievi under 17 della Folgore Segromigno Piano. Abito a poche centinaia di metri dal campo sportivo, in questo paesino frazione di Capannori che in pochi conoscono, a parte gli esperti della geografia di Lucca e dintorni. Per me il campo di calcio della mia squadra è un po’ come il cortile di casa: un posto dove si incontrano tante storie, tanti calciatori di diverse età, e dove il paese di Segromigno si sente un po’ come una grande famiglia. A me per esempio il sabato e la domenica piace andare a vedere le partite anche delle altre squadre del Segromigno, di età diverse dalla mia, quando gli orari delle partite della mia squadra non sono gli stessi. Mi sento tifoso del Segromigno quasi quanto sono tifoso della Fiorentina: oggi lo posso dire, anche se a pensarci bene non è sempre stato così. Infatti fino all’età di 10 anni io non giocavo a calcio. Ho iniziato tardi, dopo aver provato altri sport come basket e nuoto. A convincermi a venire al Segromigno fu Alfredo, lo storico presidente e fondatore della società di calcio del nostro paese: un presidente speciale, una persona con il cuore grande, che stava al campo dalla mattina alla sera; il nonno di tutti noi, oltreché mio vicino di casa, uno che stava alla scrivania della sede ma tracciava anche le righe del campo con la carriola prima delle partite. Cinque anni fa Alfredo è morto, ma io tuttora devo ringraziarlo per avermi aperto la porta di questa mia squadra del cuore a chilometro zero.

Da lì in poi, dalla fine delle elementari ad oggi, ho sempre giocato nel Segromigno, a parte una parentesi non felice nel Marlia che mi ha fatto capire una volta di più che la mia casa era la squadra del mio paese. Ho quasi sempre fatto l’attaccante centrale, grazie al fisico massiccio che mi ritrovo. Le mie qualità sono la bravura nel proteggere il pallone, nel fare le sponde per i compagni e ultimamente anche (particolare non da poco) nel buttarla dentro. All’inizio di questa stagione mi sono sbloccato. Un gol di rapina nella seconda amichevole estiva, pochi mesi fa, con un tocco di furbizia nell’area piccola, mi ha dato sicurezza e mi ha spinto a provare a cercare la porta con più decisione. E così anche in campionato ho fatto gol in due delle tre partite giocate finora. Siamo una squadra del campionato provinciale, fra di noi non ci sono fenomeni: però ce la caviamo bene, siamo un bel gruppo fatto di ragazzi che cercano di aiutarsi sempre, in campo e fuori. A proposito della forza del nostro gruppo, sono proprio contento che la Figc abbia scelto noi Allievi del Segromigno per rappresentare la provincia di Lucca nel progetto “Non solo piedi buoni”. Il gemellaggio con il centro di accoglienza per immigrati richiedenti asilo di Capannori che ci è stato proposto è una bella possibilità per diventare ancora più uniti, come squadra, condividendo fra noi calciatori e con il mister un’esperienza tosta di servizio per il nostro territorio. Oggi c’era il primo incontro, in uno degli appartamenti dove i ragazzi richiedenti asilo abitano, e a dare il calcio d’inizio di questo progetto c’ero io, insieme al mio compagno di squadra Leonardo. I ragazzi e gli educatori del centro di accoglienza, Valentina e Leonardo, ci hanno accolto con una super merenda e con un gioco utile per rompere il ghiaccio e per presentarci. I sei ragazzi che abitano nel centro di accoglienza si sono presentati facendoci vedere sulla cartina geografica i paesi dell’Africa dai quali provengono: Benin, Guinea, Costa d’Avorio… Abbiamo anche parlato di calcio, ovviamente, che è una passione che accomuna tanti di noi. Mi ha colpito l’età così giovane di questi ragazzi, tutti minorenni, praticamente della nostra stessa età. Mi ha colpito sapere che pur essendo così giovani si trovano già a vivere molto lontano dai loro genitori e dalle loro famiglie. Abbiamo anche accennato al viaggio che questi ragazzi hanno fatto per arrivare fino a Capannori: io a grandi linee sapevo che si tratta di viaggi pericolosissimi e illegali, passando attraverso il deserto del Sahara, la Libia e infine viaggiando in mare su barche di fortuna; i ragazzi ci hanno fatto capire che questo viaggio lascia delle ferite invisibili a livello psicologico, per tutto il dolore che ognuno di loro ha visto durante i mesi di tragitto; persone morte e abbandonate dai trafficanti, persone rapite, arrestate, minacciate, picchiate… Quello che però non immaginavo assolutamente era il motivo per il quale questi ragazzi si sono affidati ai trafficanti di persone per arrivare in Italia, anziché salire su un aereo. Io credevo che fosse un problema economico, cioè che l’aereo costasse troppo per loro. Invece ho saputo che l’aereo costa molto di meno rispetto alle migliaia di euro che ognuno di questi ragazzi ha dovuto pagare ai trafficanti. Ma salire su un aereo se sei africano e non sei ricco è impossibile per le leggi che ci sono attualmente. Così per questi ragazzi viaggiare illegalmente era l’unica possibilità per scappare dai loro paesi di origine e cercare un futuro migliore.

Mi ha fatto piacere sapere che gli educatori stanno aiutando questi ragazzi appena arrivati in Italia: ognuno di loro frequenta una scuola professionale, ognuno di loro ha un progetto di vita, un lavoro che spera di poter fare qui in zona. Alla fine di questo primo incontro io e Leonardo ci siamo scambiati i contatti Instagram con questi ragazzi. Noi del Segromigno proveremo a fare la nostra parte per aiutare Diallo, Mamadou, Mario e gli altri a sentirsi a casa nella nostra Capannori. Abbiamo tanto da imparare gli uni dagli altri. Speriamo di diventare amici, e di ricordarci (fra tanti anni) quella sera in cui ci trovammo per la prima volta al centro di accoglienza e le nostre strade si incontrarono…

Intervista a Klajdi Lakaj – Capostrada Belvedere

Mi chiamo Klajdi, sono un attaccante della squadra Juniores del Capostrada e il primo ricordo calcistico che ho sono gli highlights di Cristiano Ronaldo. Come per tanti altri ragazzi della mia età in giro per il mondo, CR7 è stato l’eroe d’infanzia, quasi come un personaggio dei cartoni animati. Oltre all’aspetto tecnico in sé, di Cristiano mi piacevano lo stile, le movenze, e la sua biografia piena di segni del destino, come il tentato aborto della mamma all’epoca poverissima che per fortuna non riuscì.

La passione per il calcio è nata anche grazie a mio padre, tifosissimo del Milan: babbo era fissato col calcio italiano già da quando abitava in Albania, negli anni 80; allora nel mio paese d’origine c’era il regime, e i miei parenti mi hanno raccontato che riuscivano a sintonizzarsi sui canali italiani per vedere le partite orientando l’antenna in un certo modo, anche se era illegale. Io stesso ho vissuto due anni della mia infanzia in Albania, all’inizio delle elementari, seguendo i genitori dopo essere nato a Pistoia. Poi siamo tornati tutti insieme definitivamente a Pistoia, ed è a quel punto che ho deciso di iscrivermi a una squadra di calcio. Scelsi il Capostrada, e non me ne sono più andato. Otto stagioni consecutive, alcune delle quali difficili dal punto di vista personale, perché tre anni fa il livello della squadra era salito e pure di parecchio. Cominciammo a partecipare ai campionati regionali che facciamo tuttora, arrivarono ragazzi molto bravi e io finii in panchina. In quei due anni giocai molto poco e pensai anche a cambiare squadra. Devo ringraziare con il senno di poi il mister di allora, mister Borri, che per me è stato quasi un secondo padre, e non è una frase fatta. Il mister mi teneva in panchina ma non faceva finta di niente. Mi rimproverava durante gli allenamenti: rimproveri fatti con il cuore, rimproveri con tanti consigli dentro; io me ne accorsi che il mister mi rimproverava perché voleva il mio bene, non perché voleva fare il gradasso. Forse mi voleva sfidare in senso buono. Fatto sta che ci riuscì, a tirare fuori il meglio di me. In quei due anni misi pian piano da parte la mia timidezza, imparai a metterci più grinta e meno paura di sbagliare, sia in campo che fuori. E i risultati sono arrivati.

Oggi sono io, o almeno dovrei esserlo, il bomber della squadra Juniores, e ho anche la responsabilità di portare la fascia da capitano al braccio. Non sono una prima punta fisica: a dire la verità vivo quasi più per il dribbling che per il gol. Però di gol da raccontare fatti in questi ultimi anni ne ho tanti: scelgo una rete fatta in una partita che sapeva un po’ di leggenda, l’anno scorso in casa contro il Meridien. Il campo era ai limiti della praticabilità, fango incredibile, e al momento del fischio d’inizio continuava a piovere. Eppure gli spalti erano pieni di gente venuta a vederci. A un certo punto ci furono un cross e una conclusione di un compagno che andò a sbattere contro il palo: io fui il primo sulla ribattuta e colpii d’istinto di prima intenzione, con il sinistro che fra l’altro non è nemmeno il mio piede forte: ma andò bene, la palla entrò. Un gol speciale in uno scenario epico. Menomale che l’arbitro non la rinviò per maltempo.
In questa stagione iniziata da poco, è iniziata per noi della Juniores del Capostrada anche il progetto “Non Solo Piedi Buoni”. Il gemellaggio che la Figc ha pensato per la nostra squadra è con il carcere di Pistoia: aspettiamo ancora l’ultimo via libera dalla direzione della casa circondariale, e poi tutti i mercoledì pomeriggio ci alterneremo in delle calcettate speciali in carcere, con successive chiacchierate e racconti di storie di vita nostri e dei detenuti che saranno insieme a noi in questo progetto. Io e un mio compagno di squadra abbiamo già fatto un po’ di riscaldamento, se così si può dire: Riccardo, l’esperto volontario in carcere che ci sta facendo da guida in questo percorso lungo un’intera stagione, ci ha accompagnato in un laboratorio meccanico a due passi dalla stazione di Pistoia dove alcuni ragazzi minorenni inviati dal tribunale dei minori o dalle assistenti sociali fanno un corso gratuito di saldatura. Dentro questo laboratorio abbiamo conosciuto i giovani allievi di questo corso, insieme al loro tutor e al loro maestro. I ragazzi e il maestro Enrico, che si ritrovano lì per il corso tutti i pomeriggi dei giorni feriali da settembre a gennaio, ci hanno mostrato alcune delle realizzazioni in ferro fatte dagli allievi: una scala, una rastrelliera per biciclette, un tavolino per bambini piccoli. Non mi aspettavo che un luogo così, nascosto nel centro di Pistoia, fosse un luogo dove ragazzi minorenni scontano una pena. Riccardo, il tutor Luis e gli stessi allievi ci hanno spiegato con semplicità e chiarezza il meccanismo della cosiddetta messa alla prova, che porta alcuni minorenni (condannati per reati spesso connessi allo spaccio di droga o a piccoli furti) a passare i loro pomeriggi a darsi da fare per imparare un mestiere, con il rischio del carcere minorile vero e proprio in caso di scarso impegno in questa missione che il giudice ha affidato a loro. Abbiamo invitato i ragazzi del corso di saldatura a una nostra partita in casa: uno di loro fra l’altro conosceva già bene il Capostrada. In questo pomeriggio abbiamo imparato la bellezza di associazioni e di persone che nella nostra città lavorano ogni giorno per cambiare il film della vita di adolescenti incasinati, tante volte vittime di contesti familiari difficilissimi. “Prima ancora che insegnargli a saldare, io a questi ragazzi ogni giorno faccio di tutto per volergli bene”, ci ha detto il vecchio maestro Enrico. Speriamo di metterci lo stesso cuore e la stessa fiducia senza pregiudizi, quando fra due settimane inizieremo a fare amicizia con i detenuti in carcere.

Intervista a Tommaso Muracchioli – USD Don Bosco Fossone

Mi chiamo Tommaso e gioco mezzala nell’under 17 del Don Bosco Fossone. Il primo ricordo che ho con il pallone fra i piedi è all’età di 3 anni. Mio nonno mi portava nella strada sotto l’orto di casa sua, in un paesino dell’interno sopra Carrara, e mi faceva giocare a calcio con alcuni bambini che abitavano nelle case vicine. Non era un campo vero: giocavamo sul cemento e i pali delle porte erano dei sacchetti o dei mattoni che i nonni ci aiutavano a sistemare. Giocare a calcio in strada è una passione che ho continuato a praticare anche negli anni successivi, ai tempi delle elementari, quando avevo già iniziato a giocare le partite ufficiali nei Pulcini del Don Bosco Fossone. Però il gioco libero è troppo bello, soprattutto da bambini! I genitori o i nonni ci guardavano sì, ma da lontano, ai giardinetti dove si improvvisavano delle super-partite mollando gli zaini per terra non appena uscivamo da scuola. Nel gioco libero non ci sono schemi e non c’è paura di sbagliare. E’ lì che si imparano i fondamentali del calcio. Per questo è un peccato che oggi il gioco libero si pratichi così poco. Io sono stato fortunato, ad aver avuto la possibilità di giocare per strada, in piazza, nei parchi o sulla spiaggia per così tanto tempo, da bambino. E poi sono stato fortunato a trovare una società di calcio nella mia città come il Don Bosco Fossone: qui da noi un pochino lo spirito del gioco libero esiste ancora, anche da grandi. Certo, vogliamo vincere, c’è la tattica, bisogna stare concentrati. Però quando si sbaglia o si perde nessuno ti fa il processo. Siamo liberi di sbagliare e non rischiamo mai di perdere la gioia del gioco.

Di questa aria speciale che si respira a Fossone me ne sono reso conto quando due anni fa mi venne voglia (così, per sfizio) di cambiare squadra. Tempo pochi mesi e subito sentii la nostalgia di “casa”: mi mancava il gruppo squadra, ma mi mancavano soprattutto il divertimento e la leggerezza; con tanta cura ma senza nessuna paura e senza prendersi troppo sul serio. Così ho di nuovo cambiato idea e sono tornato nella mia squadra del cuore. L’allenatore dello scorso anno, appena sono tornato qui a Fossone, mi ha cambiato ruolo: da terzino a mezzala. Il mister si era accorto che negli uno contro uno ero troppo lento. Invece nel controllo di palla, nel passaggio filtrante e nei cambi di gioco me la cavo bene, e anche negli inserimenti a chiudere le azioni arrivando in area da dietro, sfruttando il buon tiro che mi ritrovo. Così è da più di un anno ormai che mi diverto tantissimo, nel ruolo che sento davvero mio, e con la possibilità di fare gol e di vivere l’emozione più bella che c’è nel nostro gioco preferito. In questa stagione la nostra squadra è iscritta al campionato provinciale di Massa-Carrara della categoria under 17, con l’obiettivo di provare a vincerlo. Inoltre sempre in questa stagione la nostra squadra è stata scelta per partecipare al progetto Non Solo Piedi Buoni, che ha creato un gemellaggio fra noi del Fossone Allievi e i nonni del circolo pensionati di Marina di Carrara. Il giorno in cui, insieme ai miei compagni Tommaso e Nicholas, sono andato al primo appuntamento di questo incontro speciale fra carrarini di generazioni opposte, ero un pochino preoccupato. Sono timido di carattere, vedevo queste persone anziane giocare a carte con tanto accanimento, e ho pensato: “E ora come facciamo a fare amicizia?”. Ci siamo fatti forza e abbiamo chiesto a questi nonni, diversi dei quali non sapevano del nostro progetto, se volevano farci entrare in una briscola a 4, e da lì è stato bellissimo: ci siamo mescolati su tavoli diversi e abbiamo riso tutti insieme. Poi sono arrivati altri nonni, del gruppo di poesia del circolo, che invece sapevano del nostro arrivo e ci hanno accolto nella loro sala. Il protagonista è stato Antonio, un professore di inglese in pensione che ci ha raccontato la sua infanzia a Marina di Carrara, facendoci vedere i giochi che si facevano prima dell’era dei videogames. Fionde, biglie, figurine, ma anche fughe di nascosto dentro cantieri abbandonati, e anche tante giornate d’estate trascorse ad aiutare il babbo barbiere nella sua bottega e a lavorare (sempre da ragazzino) in uno stabilimento balneare in estate. Mi ha colpito tanto l’inventiva e la creatività che Antonio e gli altri nonni avevano nell’escogitare tutti questi giochi con tanto di frasi in dialetto e regole personalizzate. E infine don Tommaso (il diacono della Figc che ha inventato questo progetto) e Antonio ci hanno invitato a salire sulla Panda prestataci per l’occasione dal nostro presidente del Fossone, Giorgio, per spostarci nel cuore di Marina di Carrara e farci insegnare da Antonio tutti i particolari e i luoghi della storia della sua infanzia che ci aveva appena raccontato: la fontanella dove la mamma andava a prendere l’acqua che in casa non avevano esiste ancora, nella via principale del centro abitato che si chiama Ruga Maggiani. Con un po’ di immaginazione io e i miei due compagni di squadra ci siamo immaginati la nostra città senza automobili, senza supermercati, con tanti negozi e con tanti bambini a giocare in strada. Io sono contento di vivere nel tempo di oggi, con tutte le tecnologie e le possibilità di conoscere e di muoverci a nostra disposizione che prima non c’erano, però un po’ di quello spirito di avventura che ci ha trasmesso Antonio nei suoi ricordi da bambino vorrei che si potesse recuperare: con le ginocchia più sbucciate, con qualche piccolo pericolo in più da correre fuori casa, ma anche con tanta voglia di vivere e di sentirsi a casa nella nostra Carrara.

Intervista a Lucio Severini – Nuova Grosseto Barbanella

Mi chiamo Lucio e sono il terzino sinistro della squadra Juniores della Nuova Grosseto Barbanella. Sono contento di abitare, studiare e giocare a calcio a Grosseto. La nostra è una città che almeno secondo me è la giusta via di mezzo fra paese troppo piccolo e metropoli troppo caotica. Abbiamo il mare che d’estate ci fa sentire aria di vacanza anche quando restiamo a due passi da casa ed in più abbiamo tanti servizi, tanti ritrovi, tante scuole (la mia è l’istituto agrario con indirizzo enologia) e soprattutto diverse squadre di calcio. Io ne ho girate tre, di squadre di pallone di Grosseto, e a ognuna di queste devo dire grazie per un motivo o per un altro.

Nella prima, la Giovani Calciatori, ho vissuto l’emozione dell’inizio, con le prime partitelle della scuola calcio. Nella seconda, l’Invicta Sauro, ho avuto la fortuna di incontrare uno degli allenatori che mi hanno insegnato di più, mister Pratesi: un tecnico molto giovane che durante l’anno si ritagliava tanti momenti per chiacchierare a tu per tu con noi ragazzi. Chiacchierate importanti, almeno per me, che parlando con l’allenatore ho imparato a conoscermi meglio, a maturare caratterialmente e umanamente. Ce ne vorrebbero tanti, di mister così: che “perdono” tempo coi ragazzi fermandosi a parlare con loro non solo di calcio, ma anche della vita. E poi c’è la squadra più importante, la Nuova Grosseto, dove ho giocato la maggior parte delle mie partite e dove sono tuttora: negli ultimi anni ho cambiato diversi ruoli e ora tutti mi descrivono come un cursore di fascia molto versatile, che se la cava sia a difendere che ad attaccare, e che si adatta a giocare anche sulla fascia sinistra pur essendo il mio piede preferito il destro.

Alla Nuova Grosseto ho vissuto l’emozione bellissima, lo scorso anno, di un campionato vinto al termine di uno scontro diretto all’ultima giornata. E quest’anno un’altra emozione grande: la mia prima stagione con la fascia da capitano al braccio! In questa annata speciale da neopromossi in un campionato regionale, fra l’altro, abbiamo appena vissuto l’emozione della prima vittoria: un 3-0 da stropicciarsi gli occhi in casa contro il Castiglioncello; e proprio oggi è arrivata un’altra emozione, con l’inizio del gemellaggio di “Non Solo Piedi Buoni” fra la nostra squadra e l’associazione La Farfalla, che qui a Grosseto si occupa di stare vicino a persone malate di tumore o affette da altre patologie gravi.

Prima di venire qui non sapevo bene cosa aspettarmi. Ero curioso ma anche completamente all’oscuro di tutto, come quando vai all’interrogazione senza avere studiato. Insieme a due miei compagni di squadra ho passato due ore nella sede dell’associazione in compagnia di Loriana, che da brava presidentessa ci ha presentato a grandi linee le varie aree di intervento della Farfalla: gli infermieri e le psicologhe che ci lavorano, i tanti volontari come lei che danno una mano, i macchinari per la terapia Scramble a cui i pazienti si sottopongono per lenire il dolore della chemioterapia tramite impulsi elettrici in determinate parti del corpo. E poi è venuta a trovarci Lazara, una signora brasiliana che sta facendo chemioterapia da diversi mesi e che domani si sottoporrà a un delicato intervento chirurgico. “Sono qui in Italia da 40 anni, ho abitato prevalentemente a Roma e dintorni facendo la baby sitter, la colf e la badante”, ci ha raccontato Lazara: “Quando ho scoperto di avere il cancro, sei mesi fa, mi trovavo a lavorare nella seconda casa di una signora romana qui vicino a Grosseto, a Porto Ercole. Così recandomi all’ospedale più vicino e facendomi seguire dagli oncologi di questa città è venuto naturale fermarmi qui. Devo tutto all’associazione La Farfalla, che mi ha dato un mini-appartamento gratuito quando io altrimenti non avrei potuto prendere una casa in affitto, e che mi fa sentire in famiglia anche se la mia famiglia si trova in Brasile, dall’altra parte del mondo”. La storia di Lazara ci ha colpito per la sua serenità e la sua capacità di apprezzare la vita anche dentro una malattia grave che le ha fatto perdere i capelli e tante sicurezze riguardo il suo futuro. Abbiamo capito che questo progetto della Figc è una cosa molto seria e molto utile. Ascoltare le storie dei malati e di chi se ne prende cura ci prepara ad affrontare queste sfide quando ci ritroveremo a essere noi gli amici stretti o i familiari di una persona che soffre. Stare lontani da queste storie facendo finta che non esistano ti fa finire nel panico quando improvvisamente ti ritrovi in prima linea. Conoscere le persone che vengono qui alla Farfalla invece fa capire che anche durante la malattia una vita dignitosa può comunque esistere, e che questa dignità dipende da noi, se siamo bravi oppure no a non fare sentire solo chi la malattia si trova ad affrontarla.